Cinque giorni dopo le elezioni il presidente eletto ha parlato al popolo. Da quando ha compiuto il suo epocale ribaltone, Donald Trump era rimasto sostanzialmente rinchiuso dietro ai vetri scuri del suo grattacielo di Manhattan, «all’opera», come ha accennato in uno dei tweet che usa come canale preferenziali di comunicazione, «per rifare l’America». Ma domenica ha esordito «ufficialmente» sull’etere nazionale. Non propriamente con un discorso alla nazione ma sotto forma di una intervista al principale newsmagazine nazionale, il 60 Minutes della Cbs. Il programma è depositario del prestigio giornalistico di Edward Murrow e Walter Cronkite, ma l’intervista ha avuto un sapore nazional popolare.

INTERVISTA PATINATA Condotta dalla veterana corrispondente Leslie Stahl col tono di una zia occasionalmente severa ma sostanzialmente affettuosa, il programma è somigliato ad una cartolina berlusconiana di Natale, girata nell’appartamento alabastrato del miliardario con la partecipazione della famiglia Trump infiocchettata al completo (salvo il figlio minore Barron). In questa cornice Trump si è sforzato di trasmettere l’immagine rassicurante di un leader responsabilizzato dal peso di una carica forse inattesa (e non ancora del tutto a proprio agio con le annesse competenze). «Tutti i grandi leader mi hanno chiamato, proprio tutti!» ha esclamato il prossimo presidente. «Wow, ti da l’idea del potere del nostro paese» aggiungendo di aver realizzato dopo il voto di martedì che «la mia vita da ora in poi sarà completamente diversa». Con lo stesso apparente candore Trump ha elogiato Obama negando che il suo mandato ripudierà predecessore. «Abbiamo avuto un ottima conversazione (…) Obama mi ha parlato di molte cose. Abbiamo discusso del Medio Oriente: è complicato».

LA CONTESTAZIONE La giornalista ha fatto riferimento alle proteste che proseguono in tutta America, compreso all’esterno della Trump Tower dove si è svolta l’intervista, chiedendo al neopresidente se avesse un messaggio per quelli che negli scorsi giorni aveva definito «contestatori di professione». «Non abbiate timore» ha detto Trump, aggiungendo un «stiamo solo rifacendo il paese per tutti» che forse era inteso come rassicurazione. Alla domanda sui numerosi atti di intimidazione registrati nel paese (attacchi a studentesse col hijab, graffiti nazisti ecc.) Trump ha optato per un «Cosa dice? A me non risulta».

Pressato, ha auspicato che i gesti «di una minoranza» possano cessare «anzi glielo dico direttamente: smettetela!» ha intimato rivolto alla telecamera. PROGRAMMI E SLOGAN Chiuso il siparietto l’intervista è entrata nel merito dei programmi – o degli slogan che fino ad ora ne hanno fatto le veci nella retorica trumpista – e con la stessa disinvoltura Trump ha ribadito alcune iperboliche promesse e allo stesso tempo è parso fare dietrofront o moderare altre posizioni. Sulla questione del famigerato «splendido muro» di confine ha ammesso che potrebbe effettivamente essere sostituito da reticolato in alcuni tratti. La riforma sanitaria di Obama verrebbe sì «abrogata immediatamente» ma «ci vorrà del tempo» e le parti migliori «forse si potranno conservare».

Fra gli immigrati clandestini verranno deportati subito i «2-3milioni di criminali» per gli altri poi si valuterà perché alcuni sono «splendide persone». L’America ha «i migliori generali» anche se «sono incompetenti” come dimostrano i risultati in medio oriente». Trump ha ribadito che il sistema del collegio elettorale è sostanzialmente iniquo e andrebbe abrogato ma «funziona» perché gli ha permesso di vincere. Trump ha inanellato controsensi e apparenti contraddizioni con la disinvoltura di chi è consapevole di aver costruito una vittoria sostituendo la logica con appelli emozionali per far leva sulla rabbia viscerale dell’elettorato, promettendo di perseguire la strategia anche da presidente che «per motivare la gente a volte un certo tipo di retorica è necessaria».

PERFORMANCE SURREALE È stata una performance a tratti surreale, orchestrata per simulare la transizione del sobillante demagogo della campagna populista in temperato sovrano. Ma intanto con le prime nomine al futuro governo sono arrivate anche le prime indicazioni concrete sulla furiosa lotta intestina fra trumpisti lealisti e tradizionalisti repubblicani dal cui esito dipenderà in gran parte il carattere dell’amministrazione.

L’establishment ha segnato una vittoria con la nomina a chief of staff del segretario del partito Reince Priebus. Ma è stata temperata da quella di Steve Bannon alla carica speculare di consigliere speciale. Un colpo messo a segno dall’ala oltranzista dell’arcipelago trumpista. Bannon, già direttore del portale estremista Breitbart News, è luminare della galassia alt-right, antisemita, misogino (ex imputato di violenze sulla moglie). È come se in Italia per capo gabinetto venisse scelto il leader di Casa Pound.