L’importanza delle Costituzioni nei sistemi democratici deriva dalla consapevolezza che la democrazia è, di per sé, una costruzione delicata da preservare e proteggere con norme che regolino e limitino i poteri. La corretta applicazione delle procedure democratiche non garantisce sempre in merito alla democraticità dei rappresentanti eletti. Nel «margine di manovra» connaturato alla rappresentanza moderna si cela anche la possibilità che i rappresentanti eletti utilizzino le procedure della democrazia per svuotarla dall’interno.
Non è un’ipotesi astratta: negli anni Venti e Trenta del Novecento la democrazia viene cancellata dall’Europa continentale attraverso l’uso perverso degli stessi istituti democratici. Per evitare il ripetersi di tali processi, dopo la Seconda guerra mondiale, si è cercato di predisporre anticorpi che contrastassero le degenerazioni. Si sono diffuse così Costituzioni rigide, in cui vige la «gerarchia delle fonti» che subordina le leggi ordinarie del parlamento alle norme costituzionali, generalmente dotate di specifici riferimenti ai diritti, e in cui la Corte costituzionale vigila sulla congruità fra norme ordinarie e dettami costituzionali.

Tuttavia, neppure il rafforzamento delle garanzie costituzionali rende immuni le procedure democratiche dal rischio di utilizzi impropri. Come scrisse Maurice Duverger, «la democrazia si fonda soprattutto sulle credenze radicate nel cuore degli uomini». In altri termini, la grande sfida per la stabilità e la qualità della democrazia non consiste solo nello scrivere buone regole, bensì anche dalla capacità di costruire attorno a queste regole un ambiente culturale che le corrobori e legittimi. Per questo, al di là del momento della decisione, una Costituzione deve essere riconosciuta quale norma fondamentale e vivere nella dimensione della «cultura politica diffusa» (Zagrebelsky).
Da questa prospettiva, possiamo affermare che la Costituzione italiana è una buona Costituzione: pur in condizioni iniziali molto difficili, ha consentito il consolidamento della democrazia in Italia (per lungo tempo, negli anni Cinquanta, unico paese del Sud Europa a non essere governato da una dittatura di destra), ha accompagnato la maturazione e la conversione democratica di formazioni antisistema, ha garantito una continuità di vita democratica settantennale ad un Paese uscito stremato dalla guerra, non ostacolando (anzi) un ciclo molto intenso di riforme nelle porzioni più diverse della società negli anni Sessanta e Settanta (quando le principali forze politiche e sociali si proponevano l’obiettivo di attuare la Costituzione e non di cambiarla) e ha resistito ai recenti disordinati tentativi di modifica da parte delle forze del centrodestra.

La scelta delle norme non è mai neutra, condiziona i risultati del processo di decisione politica, veicola valori e ridisegna interessi. Per questo è regola di saggezza intervenire sulle norme fondamentali il meno possibile, evitando lacerazioni e scelte congiunturali.
Non si è sempre agito con questa ponderazione nella recente storia politica italiana. Ad esempio, oggi si propone la riforma del Senato sostenendo che vi sia la necessità di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi.
Eppure, il sistema bicamerale italiano ha sempre prodotto molte leggi (secondo alcuni, fra cui noi, troppe), più del bicameralismo differenziato di Gran Bretagna e Germania, più della Francia semipresidenziale e della Svezia monocamerale (Pasquino).
Pertanto, il senato non ha costituito, nei fatti, un impedimento al funzionamento delle procedure legislative. Tanto che lo stesso governo Renzi, a Costituzione vigente, è riuscito a far approvare una riforma controversa quale il cosiddetto Jobs Act in poche settimane.

Il senato ha cominciato ad essere disfunzionale rispetto al sistema politico in seguito ad una riforma imposta dalla maggioranza di centrodestra nel 2005, quando il cambio repentino della legge elettorale e l’introduzione del cosiddetto «Porcellum» ha prodotto in due occasioni un senato ingovernabile.
La filosofia che ispira la recente riforma costituzionale sta tutta dentro la formula fuorviante della «democrazia governante» oppure, in una versione più edulcorata, «decidente».
Al di là del fatto che queste etichette sono pressoché sconosciute nel dibattito accademico degli altri paesi, il nodo vero della questione è che l’attuale riforma non garantirà nessun «buon governo», che è il prodotto della stabilità e dell’efficacia delle istituzioni politiche, a partire dall’esecutivo.
Neanche attraverso l’implementazione del «combinato disposto» (Italicum più nuovo senato) il governo potrà godere di maggiore stabilità: al massimo, le riforme istituzionali ci regaleranno (ma a quale prezzo!) un eccesso di rigidità istituzionale che è l’esatto opposto di quella benefica flessibilità che sta al cuore di tutte le democrazie parlamentari.
Per quanto riguarda l’efficacia del governo, il nuovo procedimento legislativo, così come la rinnovata distribuzione (neo-centralista) di competenze tra stato e regioni, non risulterà semplificato. Iter legislativi diversi, suddivisi per materie spesso di difficile e certamente non inequivocabile classificazione, daranno vita a un surplus di ricorsi alla Corte, oltre a quelli (un centinaio ogni anno) già prodotti dall’improvvida e improvvisata riforma del Titolo V del 2001.

Sia chiaro: nessuno vuole imbalsamare il testo costituzionale. Proprio perché la riteniamo una buona Costituzione e vogliamo che viva nel cuore (e nella testa) della nostra società, pensiamo si debba discutere apertamente delle modifiche che possano migliorarne il funzionamento, riformandola e non deformandola.
Pertanto, sono benvenute le proposte di modifica del sistema, purché siano contributi per un confronto aperto e partecipato, e indichino una via alternativa allo «strappo» occasionale di qualsiasi maggioranza di turno.
Non è vero che, bocciato questo disegno costituzionale, non passerà più alcun «treno» delle riforme. È compito della politica individuare e creare opportunità nuove per l’adozione di riforme istituzionali che siano, al contempo, condivise ed efficaci.
Proprio in questi giorni stanno emergendo nuovi spazi di confronto e proposte puntuali per «ritoccare» la nostra Costituzione. Pertanto, è possibile respingere la riforma istituzionale proposta e delinearne assieme una migliore.
Anticipiamo la traccia di un
intervento che sarà presentato come contributo lunedì prossimo, nel corso
dell’assemblea per il No organizzata
a Roma da Massimo D’Alema.