Torna l’attenzione sui civili uccisi dai bombardamenti Nato in Libia nel 2011 durante l’operazione «Protettore unificato». Nel 2012, un documento del comando militare danese aveva ammesso il ruolo dei propri F16, insieme a quelli di un altro paese, in alcuni attacchi che secondo inchieste svolte al tempo da commissioni Onu e da alcune ong avevano fatto vittime civili. Ma era rimasto segreto. Solo di recente il documento è stato desecretato. Una causa contro l’Alleanza, portata avanti da Khaled el Hamedi, che aveva perso tutta la famiglia, era finita nel 2017 davanti a un tribunale del Belgio (sede dell’Alleanza militare) che aveva dichiarato di non avere giurisdizione. Ma la prima ammissione di responsabilità da parte di un singolo paese Nato potrebbe cambiare le cose. Alcuni parenti delle vittime avranno qualche chance di ottenere una compensazione e delle scuse. Una breccia nell’impunità. Ma molti altri episodi di quella guerra rimangono nell’ombra. L’Italia – che offriva anche le basi agli altri paesi Nato – ha mai condotto un’indagine del genere?

«Dunque è stata la Danimarca». Dopo oltre 12 anni di attesa da quando la sua famiglia era stata sepolta da un bombardamento aereo a Sorman, il cittadino libico Khaled Khweldi el Hamedi ha reagito con queste parole alla lettura di un documento militare danese risalente al maggio 2012 e finalmente desecretato e divulgato. All’epoca il comando militare del paese scandinavo aveva incrociato la lista delle proprie operazioni aeree in Libia nel 2011 con le inchieste sulle vittime civili dei bombardamenti, condotte da Nazioni unite e gruppi per i diritti umani, trovando corrispondenza in quattro episodi.
Così, le autorità danesi comunicavano all’Alleanza atlantica: «I nostri aerei hanno partecipato ad alcuni specifici attacchi, elencati fra quelli che avrebbero causato vittime civili». Insomma: dal 2012 sapevano, ma non hanno detto nulla, fino a pochi giorni fa.

GIÀ NEL LUGLIO 2011, Tripoli aveva presentato un elenco con oltre mille nomi di vittime civili dell’operazione «Protettore unificato» che il Patto atlantico, strumentalizzando incaute risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu, aveva avviato a marzo e che si sarebbe conclusa a ottobre. L’arrivo al potere dei «ribelli» archiviò i tentativi di body count. Il documento-ammissione danese del 2012 riemerge solo quando il giornalista Rasmus Raun Westh, appellandosi a una norma sulla libertà di informazione, a forza di chiedere ottiene risposta. Decine di pagine. Naturalmente, il comando militare nell’atto non confermava né escludeva le vittime civili (è la prassi consolidata in questi casi); ma ammetteva che i suoi F16 erano stati della partita.

La Danimarca si è impegnata a ricercare le ragioni della mancata indagine pubblica dopo la pubblicazione su The Guardian dell’inchiesta giornalistica svolta da Westh, dal suo collega britannico Joe Dike e dall’esperta forense libanese Maia Awada (con il sostegno di Journalismfund.eu e insieme ai siti Altinget e Airwars). I tre hanno dedicato mesi alla ricerca dei parenti delle vittime negli episodi «danesi». In particolare, non è stato facile arrivare a Khaled el Hamedi.

EL HAMEDI AVEVA PERSO moglie e figli moglie e figli sotto le bombe. In tutto 12 morti, fra parenti e amici, il 20 giugno 2011. Secondo la Nato, l’isolata abitazione era un «target militare legittimo in quanto segnalato come centro di azione e comando pro Gheddafi» (fatto negato dai superstiti e privo di conferme; in ogni caso l’evidente presenza di civili avrebbe dovuto impedire l’attacco, sulla base del diritto umanitario bellico). Un altro episodio si riferiva a un palazzo a Sirte, gli altri due a Tripoli. Dinamiche simili, soffiate e incuria.

Al tempo, il ricercatore di Human Rights Watch Sidney Kwiram aveva cercato spiegazioni presso la Nato, a Napoli. Muro di gomma. Adesso Marc Garlasco, che aveva guidato l’indagine Onu in Libia, ritiene «molto significativa» l’inchiesta basata sul documento danese desecretato. Finora, nessun paese aveva accettato il collegamento fra i propri aerei e un bombardamento specifico. Un muro che Khaled, ora residente al Cairo, aveva provato a scalfire. Dopo il lutto e lo smarrimento creò l’associazione “Vittime della Nato in Libia”; il suo avvocato, il belga Ian Fermon, portò il caso in Belgio, sede legale dell’Alleanza atlantica.

Naturalmente all’epoca era impossibile sapere chi avesse «operato» a Sorman, dei dieci paesi coinvolti nell’operazione libica: Usa, Regno unito, Francia (la grande iniziatrice, con Sarkozy), Danimarca (paese molto attivo anche perché patria dell’allora segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen), Italia (oltre a partecipare alle operazioni, forniva anche le basi di partenza – Berlusconi nicchiò, la Lega anche, ma nessuno si dimise), Belgio, Norvegia (ritiratasi dopo 4 mesi), Usa, Canada, nonché due monarchie del Golfo, Qatar ed Emirati.

UNA PARTICOLARITÀ delle moderne coalizioni militari internazionali è che quando le operazioni sono condotte in modo collettivo, le richieste di risarcimento per danni ai civili possono essere rivolte solo a singoli Stati membri dell’Alleanza. Al tempo stesso, in quasi tutti i casi, gli attacchi vengono condotti ufficialmente dalla coalizione nel suo insieme; lo Stato membro non è nominato. Diventa allora una mission impossible cercare il responsabile: occorrerebbe sapere quale Stato ha colpito, ma la coalizione nel suo insieme tace. Un omertoso «meccanismo per organizzare l’impunità», secondo Ian Fermon.

La Corte d’appello di Bruxelles, infatti, il 23 novembre 2017 aveva dichiarato di non avere giurisdizione. E ora? Khaled sembra intenzionato a presentare il suo caso in Danimarca. Nel comunicato stampa dopo la rivelazione ha scritto: «La nostra causa è giusta ed è stata oscurata a lungo. Sono state tante le vittime dai missili Nato. Cerchiamo la verità. Un raid uccise perfino un gruppo di leader religiosi, in viaggio per mediare la pace fra i fratelli libici schierati su sponde opposte. Le organizzazioni per i diritti umani e i cittadini dei paesi coinvolti facciano pressione sui loro governi affinché le responsabilità vengano alla luce».

IL COMANDO MILITARE DANESE indica la presenza di aerei di un altro Stato nell’operazione su Sorman, ma ne occulta il nome. E il mistero rimane anche su molti altri casi, diversi da quelli ammessi dalla Danimarca.

A Mejer, chi bombardò ad esempio? Fra l’8 e il 9 agosto, a sud di Zliten, 85 civili, compresi i soccorritori, caddero sotto le bombe sganciate in rapida sequenza. La Nato pochi giorni prima aveva impunemente dichiarato che anche obiettivi civili erano legittimi se potevano nascondere militari pro-Gheddafi.

Così furono distrutte Sirte e Bani Walid, si tollerò la deportazione degli abitanti di Tawergha (uccisi o cacciati dagli armati di Misurata), tanti lavoratori subsahariani sparirono nel caos della guerra, altri furono ritrovati cadaveri (per esempio quelli annegati in mare perché che la Nato non soccorse il loro barcone, come l’Onu stessa aveva chiesto). Per non parlare del crollo di un intero Stato e della diffusione delle spore jihadiste ben armate che da anni lacerano diversi paesi africani.

Ottobre 2011, gli effetti delle bombe Nato sulla città di Sirte (foto Ap)