Quale ne sia l’esito, di certo, non risolutivo, ha fatto più danni a credibilità e affidabilità dell’euro come moneta globale il meschino tiramolla delle autorità europee contro il Governo greco di quanto abbia danneggiato quest’ultimo il pesantissimo compromesso a cui ha dovuto soggiacere. E poiché nell’accordo, se si farà, non c’è nulla che renda più sostenibile l’economia greca, la cacciata dall’euro è stata forse sventata, ma la partita relativa all’austerity è solo rimandata: si continuerà a giocare nelle condizioni e con gli schieramenti che si saranno formati in Europa nei prossimi mesi o tra pochissimi anni. Condizioni che non saranno facili per nessuno dei contendenti. “Se crolla l’euro crolla l’Unione Europea” è forse l’unica affermazione condivisibile di Angela Merkel: per questo, con quel tiramolla, le autorità dell’Unione hanno sicuramente compiuto un buon passo avanti nel rivelarsi becchini dell’Europa.

Il vero regista di questa strategia suicida è Mario Draghi, che come capo di GoldmanSachs Europa aveva aiutato il Governo greco a truccare il bilancio per entrare nell’euro e indebitarsi a man bassa; e che come capo della BCE gli ha poi presentato il conto per salvare le banche creditrici; e per poi mettere Tsipras con le spalle al muro con il blocco della liquidità (il vero bazooka di cui dispone). Quel suo impegno a salvare la moneta unica “a qualsiasi costo” riguarda infatti l’euro virtuale presente nei libri contabili delle banche; non l’euro reale presente (anzi assente) nelle tasche dei cittadini per fare la spesa: e la Grecia è lì a dimostrarlo.

Ma sono virtuali anche gli euro dei debiti pubblici: sono fatti non per essere restituiti, ma per ricattare i governi. Nessuno si illude di avere indietro il denaro prestato alla Grecia per salvare le banche francesi e tedesche che l’hanno spremuta come un limone: se ne parla solo per alimentare un rancore di sapore razzista.

Tanto è vero che se i membri dell’eurozona dovessero rispettare il Fiscal Compact (di cui nessuno parla più da mesi), i paesi insolventi sarebbero più della metà. Difficilmente però l’Unione europea potrà riprendersi da questo smacco, anche se l’economia dà qualche segno di ripresa. Minacce ben più corpose incombono sui governanti. Perché mentre combattevano sull’aliquota Iva da applicare alle isole dell’Egeo i conti aperti si accumulavano: guerre ai veri confini dell’Ue – dall’Ucraina alla Libia, passando per Siria, Israele, Eritrea, Sud Sudan e Nigeria – e domani forse anche al suo interno; milioni di profughi che premono alle frontiere (e che l’Europa pensa di fermare con cannonate, reticolati e lager); deterioramento del clima, senza alcuna strategia per l’imminente vertice di Parigi; che è anche l’unica chance per rilanciare l’occupazione. Un continente che condanna alla disoccupazione perpetua da metà a un quinto delle nuove generazioni non ha futuro; e spostare verso l’alto l’età del pensionamento, come è stato imposto alla Grecia, dopo la disastrosa esperienza italiana, non fa che aggravare il problema. E dietro a tutto ciò, diseguaglianze crescenti tra paesi membri, classi sociali, ricchi e poveri, ma soprattutto tra cittadini autoctoni e profughi e migranti: fantasmi cui si nega persino il diritto di esistere. Dove sono le idee e i mezzi per affrontare queste questioni?

In Europa, come in tutto il mondo, comandano «i mercati», la finanza. Governi e politici sono al loro servizio: i guai della Grecia sono stati provocati prima dall’ingordigia e poi dal salvataggio di poche grandi banche europee. Ma è solo un caso singolo, portato alla luce dalla resistenza del popolo e del suo governo: tutti gli altri sono ancora avvolti nelle nebbie di una dottrina che imputa ai «lussi» di popolazioni immiserite i disastri provocati dalla rapacità della finanza. Mentre avallano questo attacco alle condizioni di vita dei concittadini, governi e partiti cercano di fidelizzare i loro elettorati delusi, disincantati e assenteisti vellicandone orgogli nazionali e risentimenti verso le altre nazioni. «Noi siamo probi; loro spreconi»; «Paghiamo i lussi altrui»; «Noi abbiamo fatto le riforme, loro no»; «Siamo sulla strada della ripresa, sono gli altri a trascinarci a fondo»; «O tuteliamo i nostri cittadini o manteniamo gli immigrati», ecc.

È una corsa disordinata a fare a pezzi l’Ue; ma anche a segare il ramo su cui sono seduti il suoi governanti. Perché a raccogliere i frutti di questa semina sono e saranno altri: quelli che nazionalismo e razzismo (perché di questo si tratta) sanno coltivarli meglio. È questo che paralizza i governi: che cosa mai sta proponendo l’Europa, al di la della «meritata» punizione del popolo greco e di chi volesse imitarlo? Non c’è visione strategica; non c’è condivisione di valori e obiettivi; non c’è capacità né volontà di confrontarsi con la realtà. L’unione politica dell’Europa costruita attraverso i meccanismi di mercato è irrealizzabile: più la si invoca, più si allontana. I primi passi della Comunità europea – Ceca, Euratom (quando nessuno contestava ancora l’uso pacifico del nucleare), mercato comune – non erano che la ricaduta di un ideale, quello di una comunanza di popoli che fino ad allora si erano scannati a vicenda; non l’inizio della sua trasformazione in realtà.

Anche se pochi ne erano coscienti, ad animare quei passi era stato lo spirito di Ventotene, perché la volontà di evitare guerre, conflitti e iniquità era condivisa da tutti. Tutto ciò è scomparso da tempo: l’allargamento dell’Unione è stato condotto sempre più all’insegna di una ripresa della guerra fredda (i nuovi arrivati, o i loro governi, cercano l’Europa non per gli scarsi vantaggi che promette, ma per avere la Nato in casa) e buona parte di quell’allargamento è frutto del macello jugoslavo: una guerra provocata dall’Europa in Europa, ma condotta dagli Usa e per gli Usa.

È l’alta finanza a legittimare i governi europei, come è evidente nel passaggio della Grecia da un governo coccolato da banche e Commissione a uno esecrato da entrambe. Mentre a paralizzarli sono le mosse per tenere a bada i loro elettori. Ma anche una parte, ancora maggioritaria, di questi è paralizzata: dal mito della «ripresa», dell’«uscita dalla crisi», del ritorno alla «normalità», del ristabilimento delle condizioni di prima in fatto di reddito, occupazione, consumi; ma anche di libertà, pace, diritti. Quelle condizioni non torneranno più: bisogna imparare a vivere con quelle vigenti ora e a scavarsi la strada per un mondo diverso. Imparare a convivere con milioni di profughi, dentro e fuori i confini dei nostri paesi; lavorare per sradicare, insieme a loro, aiutandoli a organizzarsi, le cause di guerre e miseria che li hanno fatti fuggire.

Mettere al centro dei programmi la conversione ecologica: per salvare il pianeta ma anche i territori in cui viviamo; e per creare un’occupazione che valorizzi capacità e saperi di tutti, senza soggiacere al ricatto di perdere il reddito se si perde il lavoro. Sostituire un’economia che si regge sulla corsa ai consumi con una convivenza che privilegi qualità e ricchezza dei nostri rapporti con la natura e gli altri. Ma soprattutto, se vogliamo un’altra Europa, costruita su pace e dignità delle persone, prendiamo atto che i suoi confini non sono quelli dell’eurozona né, per quanto allargati, dell’Unione. Sono quelli tracciati da coloro che vedono nell’Europa non un «faro di civiltà» (in fin dei conti nazismo e Shoah li abbiamo covati noi), ma l’opportunità di una vita più ricca, pacifica e diversa. Abbiamo bisogno di un nuovo Manifesto di Ventotene.