Era previsto, ma per la politica americana è ugualmente uno tsunami quello che ieri ha investito Washington: la Corte Suprema ha annullato la decisione del Colorado di respingere la candidatura di Donald Trump alle elezioni presidenziali del cinque novembre prossimo perché l’’ex presidente si era reso responsabile di «incitamento all’insurrezione» con le sue azioni del 6 gennaio 2021, quando i suoi sostenitori invasero con la violenza il Congresso per impedire la ratifica della vittoria di Joe Biden.

La decisione della Corte, presa all’unanimità, è arrivata alla vigilia del cosiddetto supermartedì, oggi, quando 15 stati tengono contemporaneamente le primarie per scegliere i candidati alla presidenza. Con ogni probabilità, domattina sapremo che Donald Trump avrà raggiunto, o sfiorato, la maggioranza dei delegati necessari per ottenere la nomination. Il match Biden-Trump del 2020 si ripeterà quest’anno benché i sondaggi dicano chiaramente che gli americani preferirebbero due candidati diversi.

Il procedimento che ha portato alla sentenza della Corte nasce da un movimento avviato qualche mese fa da due rispettati costituzionalisti, Eric Lustig e Laurence Tribe, che avevano fatto notare come la sezione III del XIV emendamento vietasse a chiunque avesse giurato fedeltà alla Costituzione e poi si fosse ribellato contro il governo degli Stati uniti di essere nuovamente eletto a una carica pubblica. L’emendamento fu approvato per impedire ai leader sudisti sconfitti di tornare al potere e fu ratificato il 9 luglio 1868.

Poiché Trump è stato imputato per le sue azioni del 6 gennaio 2021, che miravano a restare alla Casa bianca benché avesse perso le elezioni sia nel voto popolare che in quello del collegio elettorale, la conseguenza che ne traevano i due giuristi, poi seguiti dalla Corte suprema del Colorado, era che l’emendamento fosse perfettamente valido e applicabile anche oggi e quindi Trump andasse escluso dalle schede elettorali.

Una Corte suprema dove siedono sei giudici conservatori, di cui tre nominati dall’ex presidente fellone, non poteva che cercare un cavillo per mantenere Trump in corsa in ogni caso. Lo ha trovato ricorrendo a una dubbia lettura della sezione V dello stesso XIV emendamento, quella che affida al Congresso il potere di rimuovere l’interdizione, col voto dei due terzi di ciascuna Camera. La sentenza di ieri ne deduce che spetta al Congresso, e non ai singoli Stati, decidere sull’ineleggibilità di un candidato a una carica federale.

La decisione è stata presa all’unanimità, quindi con il voto anche delle tre giudici democratiche che certamente non simpatizzavano per un candidato che deve rispondere di 91 capi di imputazione in quattro diverse giurisdizioni. In realtà il partito democratico sa di avere in Biden un candidato debole, per l’età e per l’impopolarità presso metà degli elettori. Le sue migliori chance stanno nell’affrontare un candidato ancora più debole, ovvero qualcuno che non solo ha problemi giudiziari ma problemi finanziari pesanti ed è detestato dal 65% dei votanti di sesso femminile. Ben venga dunque Trump, contro il quale Biden pensa di avere buone possibilità di vittoria. I sei giudici conservatori, naturalmente, la pensano in modo opposto: vedremo a novembre chi avrà avuto ragione.

C’è anche la possibilità che all’interno della Corte suprema, dove le cose sono sempre più complicate di quanto sembrino, sia in corso una trattativa per respingere la pretesa di immunità presidenziale avanzata da Trump, sempre per proteggersi dai processi che lo attendono. Su questo i giudici devono decidere il 22 aprile prossimo. La pretesa è assurda ma una Corte come quella in carica attualmente potrebbe perfino avallarla, a meno che le tre giudici democratiche non riescano a tirare dalla loro parte due giudici conservatori: la sentenza di ieri paradossalmente fa pensare che potrebbero farcela.