La comparsa di riferimenti al politicamente corretto nei commenti e nei titoli di gran parte degli osservatori italiani a proposito della cerimonia recente degli Oscar è leggermente preoccupante.

Quest’anno, abbiamo letto, sarebbero state «ignorate» e «sconfitte» le nuove regole di inclusione che secondo quanto gli stessi osservatori paventavano da tempo, dovevano rappresentare una minaccia per la qualità delle opere premiate.

Preoccupante, perché tra le nomination di questa edizione non si sono viste biancanevi nere e neppure mary poppins vietate, moneta corrente del nostro dibattito pubblico sul tema (gettonatissime nei comizi da Salvini e Meloni), ma soltanto la bravissima attrice nativa Lily Gladstone accanto ai film di maggior successo della stagione, girati con la consueta etica hollywoodiana.

Più preoccupante il fatto che, nel mondo, a guidare la carica al politicamente corretto degli Oscar siano rimasti praticamente soltanto Elon Musk («un concorso woke») e Donald Trump («uno show politicamente corretto molto brutto») con due tweet analoghi e piuttosto lunari.

A FARNE LE SPESE è stato in parte anche il film sorpresa dell’anno, quell’American Fiction malinconica commedia satirica sul mondo letterario americano e la sua ossessione per i romanzi-verità, che è stato definito «anti-woke» nella concisione di molti titoli (per la gioia dei titolisti la parola woke è ormai utilizzabile nella stampa mainstream italiana, clickbait sicuro), non solo qui da noi.

«Mentre alcuni commentatori conservatori gridano alla vittoria anti-woke – ha osservato l’altro giorno sul Guardian la scrittrice Othega Uwaghba – a me sembra che il film sia più vicino alle conversazioni sul tema coi miei amici convintamente woke».

Parrebbe impossibile, in effetti, avvicinare American Fiction a un qualunque discorso del ministro Sangiuliano. Scritto e diretto da Cord Jefferson che ha portato sullo schermo con grande fedeltà alla trama il romanzo Erasure di Percival Everett del 1999, afroamericani entrambi, il senso del film se così si può dire non starebbe nel meno, ma nel più politicamente corretto.

Ci ricorda che uno degli esiti del percorso verso la correttezza dovrebbe essere la liberazione individuale di ciascuno da ogni appartenenza che non si è scelta, da ogni sguardo che ti vogliono imporre.

«Io alla razza non ci penso quasi mai – riflette nelle prime pagine il protagonista Thelonious Monk Ellison – E quando ci penso è perché mi sento in colpa perché non ci penso. Io non credo alla razza».

American Fiction, molti l’hanno già visto, è la vicenda di un raffinato scrittore afroamericano considerato troppo poco nero dagli editori, che “svolta” quando sotto lo pseudonimo Stagg R. Leigh (lo Stagolee della mitologia afro) scrive per pura provocazione un libro pieno di ogni stereotipo da vita nel ghetto: droga, famiglie sfasciate, sesso, soldi, macchinoni, slang. Si chiamerà F*ck, sarà salutato come vera voce della sua gente. Monk ne ricava soldi, una chiamata dal cinema, una montagna di sensi di colpa e il problema non da poco di svelare la sua identità nella cerimonia di consegna di un grande premio letterario.

È un film paradossale, tragicomico, un po’ Dino Risi. Nello sviluppo meta di Cord Jefferson, che sposta il bersaglio satirico dall’editoria newyorkese a Hollywood, lo spettatore ha disposizione non uno ma ben tre finali (il film è distribuito da Amazon Prime).

Nel testo di Percival Everett (Cancellazione, appena ripubblicato da La Nave di Teseo), la popolarità di Monk è soltanto televisiva ma i materiali aggiunti alla trama in stile postmoderno sono notevoli, a cominciare dalla stesura completa del romanzo F*ck – il traduttore Marco Bosonetto deve fare i salti mortali per avvicinarsi alla parodia hip-hop dell’originale.

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THELONIOUS ELLISON assomiglia un po’ al suo creatore, Percival Everett. Settant’anni compiuti, figlio di medici e professore all’Università di Southern California, scrittore satirico alla Kurt Vonnegut, autore di una trentina di romanzi ispirati ugualmente alla mitologia greca e al genere western comunque mai abbastanza afroamericani: «Tom Clancy – riflette ancora lo scrittore Monk – non cerca di vendermi l’equipaggio di un sottomarino nucleare come una galleria di ritratti della sua gente».

Tuttavia il più recente The trees è un horror con fantasmi ispirato al celebre linciaggio del quattordicenne Emmett Till, Mississippi 1963, cantato anche da Bob Dylan.

Quanto a Cord Jefferson, il quarantenne autore tv e sceneggiatore raccoglie i frutti di una carriera cominciata come blogger e proseguita da redattore del sito di gossip Gawker. Dieci anni fa il conduttore tv Chris Hayes lo chiama per un segmento satirico del suo show: racconterà una megarissa tra irlandesi durante la consueta parata di San Patrizio usando tutti gli stereotipi che l’informazione avrebbe usato per gli afroamericani, concludendo con invidiabile aplomb e serietà che lui non è razzista anzi ha molti amici bianchi.

Figlio di un avvocato nero e di un’insegnante bianca, Jefferson ha tatuato sul petto il nome di James Baldwin e Boys don’t cry, il titolo della canzone dei Cure. Quella performance gli ha aperto le porte della tv: è stato autore per i late show, sceneggiatore per il comico Aziz Ansari e per la serie Watchman. American Fiction è il suo primo film.

SE PROPRIO amate la parola, Percival Everett e Cord Jefferson sono i personaggi del giorno dell’America woke, che già attende con enorme interesse l’uscita del nuovo album di Beyoncè Cowboy Carter, alla fine della settimana prossima.

Un disco di country music, genere che la postar afroamericana nata a Houston, Texas profondo sud pratica dai tempi di Dandy Lessons (2014), splendida canzone sul patriarcato e il diritto dei neri a difendersi che fu clamorosamente rifiutata dal piccolo mondo con Nashville per capitale, molto bianco e parecchio conservatore.

La riscoperta della Black country music, come il titolo di un recente saggio della studiosa Francesca T. Royster, ci riporta a Ray Charles, Tina Turner e ai loro dimenticatissimi contributi al genere, è un’altra sfida agli stereotipi, l’atto di una piccola grande battaglia culturale in corso.

Per Royster la musica country, lontana dalla nostalgia dixie ma radicata nell’esperienza nera della fuga e della rivolta degli schiavi, è la chiamata a un nuovo piacere queer.

Beyoncé nel singolo
Beyoncé nel singolo “Texas Hold Em”

Il singolo di Beyoncè Texas Hold’em ha già conquistato la vetta della classifica specializzata di Billboard. Quadriglia di amore, pick-up e alluvioni con la banjoista afroamericana Rihannon Giddens che non manca mai di ricordare come il suo strumento abbia lontane origini africane e, allo stesso modo, la musica dei cowboy una profonda componente nera che solo la segregazione decretata dall’industria discografica negli anni Venti ha voluto rimuovere.